Il 21 novembre scorso si è assistito ad una svolta nel dibattito europeo sul controllo degli investimenti strategici in quanto la Commissione UE ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per l’uso improprio dei golden powers in relazione al settore bancario. Sicché, la menzionata Istituzione ha messo in mora l’Italia contestando l’incompatibilità con il diritto europeo dell’impianto disciplinare in materia. Quest’ultimo in particolare assegnerebbe poteri eccessivamente discrezionali al governo, chiamato ad effettuare difficili valutazioni in ambiti di particolare impatto sistemico.
Pur non essendo espressamente menzionato nella lettera di messa in mora, il caso UniCredit–Banco BPM sembra aver costituito un riferimento sostanziale nel contesto della procedura avviata dalla Commissione. Secondo quanto sostenuto da quest’ultima, il governo avrebbe oltrepassato i limiti della legittima tutela della sicurezza nazionale, determinando un’interferenza non proporzionata con il principio della libera circolazione dei capitali. Le sovrapposizioni con le competenze della BCE (nell’ambito del Single Supervisory Mechanism) e della Commissione UE (in materia di concentrazioni) paiono consentire “interventi ingiustificati in ambito economico”. A seguito della ricezione della lettera di messa in mora, l’Italia dispone adesso di due mesi per far pervenire le proprie osservazioni; se tali risposte non fossero ritenute soddisfacenti, la Commissione dovrebbe procedere con l’adozione di un parere motivato e, nell’ipotesi di perdurante inadempimento, essa dovrebbe adire la Corte di Giustizia UE.
Va osservato che la procedura si colloca in un più ampio contesto normativo in evoluzione. Il Regolamento UE n. 452 del 2019, attualmente vigente, è al centro di un processo di revisione volto a rafforzare il sistema europeo di controllo sugli investimenti esteri diretti.
Ebbene, l’esperienza italiana costituisce un caso emblematico, capace di evidenziare potenzialità e criticità di un sistema in trasformazione. Il golden power, da tempo, non è più strumento di mera difesa, ma leva di intervento strategico dello Stato nell’economia. A partire dal decreto-legge n. 21/2012 e successive modifiche, il potere del Governo si è ampliato sino a comprendere operazioni che coinvolgono asset strategici anche nel mercato interno, nonché tra operatori nazionali o europei. Il suo esercizio interessa settori chiave come energia, telecomunicazioni, difesa, sanità, finanza e infrastrutture digitali.
Tale espansione di campo ha sollevato interrogativi sulla compatibilità tra l’esigenza di tutela della sicurezza nazionale e le libertà fondamentali dell’Unione. Il caso UniCredit–Banco BPM, divenuto il simbolo di questa tensione, ha visto il TAR Lazio riconoscere nella sentenza n. 13748/2025 che anche la “sicurezza economica” può rientrare nella più ampia nozione di “sicurezza nazionale” con ciò effettuando una impropria sovrapposizione concettuale.
Sul piano operativo, emerge un altro dato rilevante ovvero che l’obbligo di notifica preventiva genera un numero elevatissimo di comunicazioni – oltre 3.000 nei Paesi UE negli ultimi due anni – ma solo una minima parte di queste porta a un esame approfondito o all’esercizio effettivo del potere. Questo fenomeno di “iper-notifica difensiva” rischia di ingolfare il sistema, sottraendo risorse istruttorie e creando un effetto distorsivo: troppe segnalazioni, pochi controlli sostanziali. È una debolezza strutturale, aggravata dalla disomogeneità tra gli Stati membri e dalla mancanza di una governance comune realmente efficace.
Proprio per ovviare a questi limiti, la proposta di revisione del Regolamento europeo – qualora fossero accolti gli emendamenti in merito al rafforzamento dei poteri della Commissione UE - introdurrebbe una forma di “competenza concorrente funzionale” tra UE e Stati membri. La titolarità della decisione finale resterebbe in capo allo Stato, ma entro parametri europei più chiari e con un potere rafforzato della Commissione nei casi di impatto sistemico. In questo nuovo schema, Bruxelles potrebbe emettere obiezioni vincolanti, introdurre poteri di accertamento e contestare formalmente l’uso dei poteri speciali quando essi appaiano sproporzionati o discriminatori.
La procedura di infrazione sopra menzionata va letta proprio in questa chiave. Quest’ultima non è solo una censura al caso italiano, ma un segnale politico forte verso tutti gli Stati membri. Essa anticipa il passaggio da un controllo puramente nazionale ad una regolazione condivisa dell’equilibrio tra apertura economica e sicurezza strategica. La vera sfida, oggi, non è più solo giuridica: è costruire una fiducia reciproca e un’architettura istituzionale che sappia distinguere tra protezione legittima e protezionismo mascherato, nel rispetto delle libertà del mercato e dei principi dell’Unione.



